BOLZANO – La notizia è arrivata con la discrezione delle grandi rivoluzioni: dall’anno prossimo, le Competenze socio-emotive diventeranno materia curricolare nelle scuole altoatesine, dalla primaria al liceo. Non un progetto sperimentale, non un’ora di recupero per chi è “in difficoltà”, ma una disciplina trasversale che entrerà nella valutazione di Educazione alla cittadinanza. Per tutti. Saremo apripista in Italia, forse in Europa. E chi lavora nelle scuole di questa terra, chi ogni giorno si siede di fronte a bambini e ragazzi che portano nel loro zaino molto più dei libri, sa che questa non è solo una buona notizia. È una necessità urgente.
Nel mio lavoro, come psicologa scolastica, attraverso corridoi di scuole dell’infanzia, primarie e medie. Entro in aule dove gli sguardi dei ragazzi dicono più delle parole. E quello che vedo è sempre più chiaro: stiamo crescendo una generazione tecnicamente competente ma emotivamente analfabeta. Ragazzini di undici anni che non sanno dire “ho paura” ma attaccano il compagno. Adolescenti che preferiscono il silenzio dello schermo al rischio di una conversazione vera. Bambini che davanti a un conflitto si paralizzano o esplodono, perché nessuno ha mai insegnato loro che esistono vie di mezzo. Non è colpa loro. È che abbiamo dato per scontato che l’intelligenza emotiva si sviluppi da sola, come camminare o parlare. Non è così. Va coltivata, insegnata, allenata. Proprio come la matematica o l’italiano.
L’ansia è diventata la colonna sonora dell’adolescenza contemporanea. Non parlo dell’ansia “normale” di un’interrogazione o di una nuova situazione. Parlo di quella pervasiva, paralizzante, che impedisce di dormire, di concentrarsi, di vivere. Perché? Perché viviamo in un mondo che accelera costantemente mentre i nostri ragazzi non hanno gli strumenti per rallentare. Gli schermi propongono una vita perfetta, filtrata, irraggiungibile. I social media trasformano ogni momento in una performance da giudicare. L’intelligenza artificiale può già scrivere meglio di loro, calcolare più velocemente, rispondere a ogni domanda.
“A cosa servo?” mi chiedono, tra le righe. “Chi sono, se una macchina può fare tutto quello che faccio io?”
L’intelligenza emotiva risponde a questa domanda. Tu servi a sentire. A creare significato. A scegliere con consapevolezza. A connetterti autenticamente con un altro essere umano. Queste sono le competenze che nessuna AI potrà mai sostituire, perché richiedono vulnerabilità, presenza, corpo.
La solitudine della connessione continua
Il paradosso della nostra epoca: ragazzi iperconnessi che si sentono profondamente soli. Hanno centinaia di “amici” online ma nessuno a cui davvero confidarsi. Sanno chattare per ore ma non sanno guardare qualcuno negli occhi e dire “ho bisogno di aiuto”. La solitudine dei nostri giovani è solitudine emotiva. Non mancano loro i contatti, manca loro la capacità di costruire relazioni autentiche. E questa capacità si impara. Si impara a riconoscere i propri bisogni, a comunicarli, a tollerare il disagio della vulnerabilità. Si impara che l’altro non è uno schermo da swipare via quando ci annoia, ma una persona complessa con cui stare in relazione richiede pazienza, ascolto, empatia.
C’è una ragione profonda per cui dovremmo preoccuparci dell’analfabetismo emotivo dei nostri ragazzi, e va oltre il loro benessere individuale. Riguarda la tenuta democratica della nostra società. I movimenti autoritari, le ideologie estremiste, i populismi di ogni colore hanno sempre fatto leva sulle emozioni non riconosciute e non elaborate: la paura senza nome che cerca un nemico da identificare. La rabbia che non sa esprimersi se non distruggendo. Il bisogno di appartenenza che si accontenta di qualsiasi tribù purché ci accolga. Il risentimento che cerca capri espiatori.
Un ragazzo che ha sviluppato intelligenza emotiva:
- Sa nominare la propria paura invece di proiettarla sugli altri
- Riconosce quando qualcuno sta manipolando le sue emozioni
- Tollera l’ambiguità e la complessità senza bisogno di risposte semplicistiche
- È capace di pensiero critico perché conosce i propri bias emotivi
- Non ha bisogno di odiare qualcuno per sentirsi parte di qualcosa
Ogni forma di discriminazione – razzismo, sessismo, omofobia – si nutre dell’incapacità di vedere l’umanità dell’altro. L’empatia è l’antidoto a tutti gli “-ismi”. Ma l’empatia non è innata: è una competenza che va educata.
Cosa significa davvero insegnare le competenze socio-emotive
Non parliamo di buonismo o di “fate i bravi”. Parliamo di competenze concrete, misurabili, essenziali:
Alfabetizzazione emotiva – Imparare a riconoscere e nominare le emozioni proprie e altrui. Un bambino che sa dire “sono frustrato” invece di buttare per terra il banco ha già fatto un passo enorme. Un adolescente che riconosce la propria invidia invece di attaccare il compagno più bravo, ha acquisito un superpotere.
Regolazione emotiva – Le emozioni non vanno represse né agite impulsivamente. Vanno attraversate con consapevolezza. Significa imparare strategie concrete: respirare quando l’ansia sale, fare una pausa prima di rispondere con rabbia, trovare spazi di elaborazione invece di anestetizzarsi con lo schermo.
Competenze relazionali – Comunicare i bisogni, ascoltare attivamente, gestire i conflitti in modo costruttivo, chiedere aiuto, offrire supporto. Sono abilità che un tempo si imparavano in cortile, oggi vanno insegnate esplicitamente.
Pensiero critico emotivamente informato – Riconoscere come le emozioni influenzano il nostro pensiero. Distinguere fatti da interpretazioni. Resistere alla manipolazione. Costruire la propria opinione invece di farsi trasportare dall’onda emotiva del momento.
L’Alto Adige fa questa scelta adesso perché non possiamo più permetterci di aspettare. I dati sull’ansia e la depressione giovanile sono allarmanti. Il ritiro sociale aumenta. L’autolesionismo è diventato linguaggio comune per esprimere un dolore che non sa dirsi. I disturbi alimentari colpiscono sempre più giovani.
E mentre la salute mentale dei nostri ragazzi peggiora, il mondo diventa sempre più complesso. L’intelligenza artificiale sta rivoluzionando il mercato del lavoro e il modo in cui apprendiamo. I social media plasmano identità ancora fragili. Le sfide globali – climatiche, economiche, sociali – richiedono cittadini capaci di pensiero critico e collaborazione. Inserire le Competenze socio-emotive nel curriculum non è un atto pedagogico. È un atto politico. È dire: “Vogliamo cittadini consapevoli, non consumatori passivi. Vogliamo persone capaci di pensare, non di ripetere. Vogliamo giovani che sappiano prendersi cura di sé e degli altri, non individui isolati in lotta per la sopravvivenza.”
Certo, il rischio c’è. Il rischio è che anche questa diventi l’ennesima “materia” da studiare, con definizioni da mandare a memoria e voti da mettere sul registro. Il rischio è che diventi performance invece che trasformazione.
Per questo servirà:
- Formazione seria per gli insegnanti, che dovranno essere i primi a fare i conti con le proprie emozioni
- Spazi di autenticità dove sia permesso sbagliare, essere vulnerabili, non sapere
- Coerenza educativa tra tutte le discipline e tutti gli adulti della scuola
- Coinvolgimento delle famiglie, perché l’intelligenza emotiva si impara prima di tutto a casa
- Tempo – le emozioni non si processano in 50 minuti scanditi dalla campanella
Ma il fatto che l’Alto Adige abbia fatto questa scelta istituzionale, curricolare, per tutti, è già un segnale potente. Dice ai ragazzi: “Le vostre emozioni contano. La vostra vita interiore è importante. Meritate di essere accompagnati in questo.” Alla fine, cosa protegge i nostri ragazzi dall’ansia, dalla solitudine, dalla dipendenza dagli schermi, dalla manipolazione, dall’autoritarismo? Non la censura. Non la repressione. Non l’iperprotezione.
Li protegge la capacità di stare con se stessi. Di riconoscere i propri bisogni. Di tollerare il disagio senza anestetizzarsi. Di costruire relazioni autentiche. Di pensare con la propria testa. Di sentire la propria umanità e riconoscerla negli altri.
Li protegge, in una parola, l’intelligenza emotiva.
E forse, tra vent’anni, ci chiederemo come abbiamo fatto per così tanto tempo a educare intere generazioni senza dedicare attenzione sistematica a quello che più conta: imparare a essere umani.
L’Alto Adige ha scelto di essere apripista. Ora tocca a noi – insegnanti, psicologi, educatori, genitori – fare in modo che questa opportunità non venga sprecata. Perché investire nell’intelligenza emotiva dei nostri giovani significa investire in una società più consapevole, più libera, più umana. È la rivoluzione più silenziosa. Ed è quella di cui abbiamo più bisogno.
