“Non c’è nascita di coscienza senza dolore.” Jung
Mentre giugno si avvicina alla fine e le scuole iniziano a chiudere i battenti per l’estate, nelle sale insegnanti si respira un’aria particolare. Non è solo stanchezza fisica quella che vedo negli occhi dei colleghi professori che incontro nel mio studio, ma qualcosa di più profondo: una frattura nell’anima, quello che Carl Gustav Jung avrebbe riconosciuto come una ferita archetipica.
Nel pensiero junghiano, l’insegnante incarna uno degli archetipi più antichi dell’umanità: quello del Maestro, del Saggio che trasmette conoscenza e guida le nuove generazioni. Questo archetipo porta con sé un’energia creativa potente, ma anche un peso psichico considerevole. Come ogni archetipo, ha la sua Ombra: il rischio di identificarsi completamente con il ruolo, perdendo il contatto con i propri bisogni umani più elementari.
La ricerca moderna sul burnout degli insegnanti, condotta da Maslach e Leiter nel loro fondamentale lavoro del 2016, conferma quello che Jung intuiva già un secolo fa: quando un individuo si identifica eccessivamente con un ruolo archetipico, rischia di esserne consumato. I dati mostrano che oltre il 40% degli insegnanti europei sperimenta livelli elevati di esaurimento emotivo, con picchi significativi proprio nei mesi finali dell’anno scolastico.
La Tempesta Perfetta di fine anno
Per comprendere la particolare intensità della fatica professionale che colpisce gli insegnanti a giugno, dobbiamo analizzare quello che potremmo definire una “tempesta perfetta” di fattori psicologici e neurobiologici. Dal punto di vista delle neuroscienze, gli studi di Lupien e colleghi (2018) hanno dimostrato come l’esposizione prolungata al cortisolo – l’ormone dello stress – comprometta specificamente le funzioni esecutive e la memoria di lavoro. Dopo nove mesi di gestione di classi numerose, pressioni burocratiche e richieste conflittuali da parte di studenti, genitori e dirigenza, il sistema nervoso degli insegnanti raggiunge quello che i ricercatori chiamano “carico allostatico”: il punto in cui i meccanismi di adattamento allo stress iniziano a collassare. Ma c’è dell’altro. La fine dell’anno scolastico rappresenta simbolicamente un momento di “morte e rinascita” nel ciclo educativo. Gli studenti che hai accompagnato per mesi ti lasciano, portando con sé una parte del tuo investimento emotivo. È quello che Jung chiamava “perdita di energia psichica”: quando i legami affettivi si spezzano, l’energia che vi era investita deve essere elaborata e trasformata.
Nella mia pratica clinica, osservo regolarmente come il corpo degli insegnanti diventi il portavoce di un disagio che spesso la mente razionale fatica a riconoscere. Le ricerche di van der Kolk sul trauma e il corpo (2014) ci insegnano che lo stress cronico si inscrive letteralmente nei tessuti, manifestandosi attraverso sintomi apparentemente slegati dal lavoro. Gli insegnanti arrivano nel mio studio lamentando insonnia, tensioni muscolari croniche, problemi digestivi, cefalee ricorrenti. Ma dietro questi sintomi fisici si nasconde spesso quello che definisco “trauma del dare“: l’esaurimento che deriva dal dare continuamente senza ricevere adeguato nutrimento emotivo in cambio. La ricerca di Hakanen e colleghi (2020) conferma che gli insegnanti mostrano tassi di disturbi psicosomatici significativamente più elevati rispetto ad altre categorie professionali, con un’escalation particolare nei mesi primaverili. Il loro sistema nervoso autonomo, costantemente attivato dalla necessità di essere “sempre presenti” per gli studenti, perde gradualmente la capacità di autoregolarsi.
Tuttavia, la prospettiva junghiana ci offre anche una chiave di lettura trasformativa di questa crisi. Jung parlava di “individuazione” come del processo attraverso cui l’individuo integra gli aspetti consci e inconsci della propria personalità, raggiungendo una maggiore completezza psichica. Per un insegnante, la fatica di fine anno può rappresentare paradossalmente un’opportunità di individuazione professionale. È il momento in cui l’Ombra dell’archetipo del Maestro emerge chiaramente: la stanchezza, la frustrazione, il senso di inadeguatezza che spesso viene negato durante l’anno. Riconoscere e integrare questi aspetti “negativi” non significa fallire come educatori, ma piuttosto diventare insegnanti più completi e autentici. Gli studi longitudinali di Day e Gu (2014) su insegnanti con carriere sostenibili mostrano un pattern interessante: coloro che riescono a mantenere elevati livelli di soddisfazione professionale nel tempo sono quelli che hanno imparato a riconoscere e rispettare i propri limiti, sviluppando quello che potremmo chiamare “saggezza dell’autocompassione”.
La neuroplasticità del cervello adulto ci offre speranza: anche dopo mesi di stress, il sistema nervoso mantiene la capacità di rigenerarsi. La ricerca di Davidson e Lutz (2008) sulle pratiche contemplative dimostra che tecniche come la mindfulness possono letteralmente rimodellare le aree cerebrali coinvolte nella regolazione emotiva. Per gli insegnanti, questo significa che la pausa estiva non dovrebbe essere vista solo come un periodo di “recupero passivo”, ma come un’opportunità attiva di riconnessione con se stessi. Jung parlava dell’importanza del “tempo vuoto” – momenti in cui la coscienza può rilassarsi e permettere all’inconscio di riorganizzarsi creativamente.
Le pratiche che consiglio più frequentemente includono:
Il dialogo con l’Ombra professionale: dedicare tempo a riconoscere e accettare gli aspetti del proprio lavoro che generano frustrazione, senza giudizio ma con compassione. Questo processo, che Jung chiamava “confronto con l’Ombra“, è essenziale per prevenire proiezioni negative sugli studenti o sui colleghi.
La riscoperta dei propri ritmi naturali: dopo mesi scanditi dalle campanelle scolastiche, è fondamentale riconnettersi con i propri ritmi circadiani naturali. Le ricerche di Roenneberg (2012) mostrano come il rispetto dei cronotipi individuali migliori significativamente la qualità del sonno e dell’umore.
L’investimento in nuove fonti di significato: diversificare le fonti di autostima e realizzazione personale, evitando l’identificazione totale con il ruolo professionale. Questo processo, che Jung chiamava “differenziazione”, è cruciale per mantenere l’equilibrio psichico.
Verso una nuova consapevolezza professionale
La fatica degli insegnanti a fine anno non è semplicemente un problema individuale da risolvere con più giorni di ferie o migliori condizioni contrattuali – benché questi aspetti rimangano importanti. È piuttosto il sintomo di una crisi più profonda nel modo in cui la nostra società concepisce e sostiene la funzione educativa. Come psicoterapeuta junghiana in formazione, vedo in questa crisi anche un’opportunità: quella di ripensare l’insegnamento non solo come trasmissione di contenuti, ma come relazione umana profonda che richiede cura, sostegno e riconoscimento della sua complessità psicologica.
Gli insegnanti che attraversano con consapevolezza questa fase di fatica possono emergerne trasformati, portatori di una saggezza professionale più matura. Come scriveva Jung: “Non si può illuminare l’oscurità, si può solo renderla cosciente“. La fatica di fine anno, se accolta e compresa, può diventare il seme di una rinnovata passione educativa, più radicata nella realtà umana e meno dipendente da ideali perfezionistici.
L’estate che si avvicina non è solo una pausa, ma un invito alla rigenerazione profonda. Un tempo per lasciare che l’archetipo del Maestro riposi, mentre la persona umana che lo incarna ritrova le proprie forze e la propria autenticità.
Se sei un insegnante e riconosci in queste parole la tua esperienza, ricorda che cercare aiuto professionale non è un segno di debolezza, ma un atto di saggezza e cura verso te stesso e, indirettamente, verso i tuoi futuri studenti.
