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“Il processo di individuazione richiede la giusta distanza tra i confini dell’Io e dell’Altro; così nella relazione terapeutica, la vera intimità non è data dalla vicinanza formale, ma dalla capacità di incontrare autenticamente l’anima del paziente mantenendo la coscienza dei ruoli.” Jung.

Come psicoterapeuta di orientamento psicodinamico, mi sono spesso trovata a riflettere su quanto le piccole scelte linguistiche possano influenzare profondamente la relazione terapeutica. Tra queste, la scelta tra l’uso del “tu” o del “Lei” rappresenta un dilemma professionale che merita un’attenta considerazione.

La questione del registro linguistico in terapia non è mai neutra: ogni scelta porta con sé implicazioni sul piano del transfert, dell’alleanza terapeutica e dei confini relazionali. Vorrei condividere alcune riflessioni su questa scelta apparentemente semplice ma carica di significati.

Quando il “tu” può facilitare il processo terapeutico

L’uso del “tu” con il paziente può favorire un clima di maggiore immediatezza e vicinanza emotiva. Per alcuni pazienti, specialmente i più giovani o coloro che provengono da contesti culturali meno formali, il “Lei” potrebbe erigere una barriera invisibile che ostacola l’apertura e la spontaneità necessarie al processo terapeutico.

Ho notato che il “tu” può talvolta attenuare le asimmetrie di potere insite nella relazione terapeutica, permettendo al paziente di sentirsi meno “oggetto di cura” e più partecipante attivo in un dialogo tra due soggettività. Questo può essere particolarmente importante quando lavoriamo con persone che hanno vissuto esperienze di svalutazione o di sottomissione a figure autoritarie.

Inoltre, in alcuni contesti clinici specifici, come il lavoro con adolescenti o in setting di gruppo, il “tu” può risultare più naturale e favorire la costruzione di un’alleanza terapeutica basata sulla fiducia e sull’autenticità.

Quando mantenere il “Lei” può essere terapeutico

D’altra parte, il mantenimento di una certa formalità attraverso l’uso del “Lei” può servire a proteggere quello spazio simbolico di differenza che è fondamentale nella prospettiva psicodinamica. La distanza creata dal “Lei” non è necessariamente emotiva, ma rappresenta piuttosto un riconoscimento della specificità dei ruoli all’interno della relazione terapeutica.

Il “Lei” può aiutare a contenere fantasie di amicizia o familiarità che potrebbero interferire con il lavoro analitico, specialmente in pazienti con difficoltà nella gestione dei confini relazionali. La formalità può paradossalmente creare uno spazio più sicuro in cui esplorare contenuti intimi e vulnerabili, proprio perché segnala che quella relazione ha regole diverse dalle relazioni sociali ordinarie.

Inoltre, il passaggio dal “Lei” al “tu”, quando avviene come processo condiviso e consapevole, può diventare esso stesso un momento significativo nel percorso terapeutico, un rito di passaggio che segna una nuova fase della relazione.

Dal punto di vista psicodinamico, è impossibile ignorare come la scelta di registro attivi specifiche dinamiche transferali. Il “Lei” può facilitare il dispiegarsi di transfert legati a figure genitoriali o autoritarie, mentre il “tu” può attivare transfert fraterni o amicali.

Né l’una né l’altra modalità è intrinsecamente più “corretta” o terapeutica: ciò che conta è la consapevolezza di come questa scelta interagisca con il mondo interno del paziente specifico e con la sua storia relazionale.

Una scelta contestuale e flessibile

Nella mia esperienza clinica, ho imparato che non esistono regole universali. La scelta tra “tu” e “Lei” va calibrata considerando molteplici fattori: l’età del paziente, il suo background culturale, la problematica presentata, il setting di lavoro e, non ultimo, il proprio stile personale come terapeuta.

Ciò che risulta più importante è la coerenza della scelta con il proprio modello teorico di riferimento e la consapevolezza delle sue implicazioni. Che si scelga il “tu” o il “Lei”, è fondamentale che questa decisione sia frutto di una riflessione clinica e non di un’abitudine irriflessa o di un’ansia personale.

Conclusioni

Come terapeuti, siamo continuamente chiamati a riflettere su come ogni aspetto della relazione terapeutica, incluse le scelte linguistiche, influenzi il processo di cura. La questione del registro non è mai puramente formale, ma riguarda il cuore stesso della relazione terapeutica e la sua potenzialità trasformativa.

Forse la domanda più importante non è tanto se sia meglio usare il “tu” o il “Lei”, ma piuttosto: quale scelta serve meglio il processo terapeutico di questo specifico paziente, in questo momento della sua vita e del nostro lavoro insieme? La risposta richiede quella continua oscillazione tra vicinanza e distanza, immediatezza e riflessività, che caratterizza il lavoro psicoterapeutico nella sua essenza.