La perdita di una persona cara rappresenta una delle esperienze più devastanti che l’essere umano possa attraversare, eppure nella società contemporanea sembra che abbiamo perduto la capacità di accompagnare e sostenere chi affronta questo dolore. Come psicologa di orientamento psicodinamico, osservo quotidianamente le conseguenze di una cultura che ha sistematicamente rimosso la morte dalla coscienza collettiva, creando un paradosso doloroso: proprio nel momento in cui avremmo più bisogno di sostegno e comprensione, ci troviamo isolati in un dolore che la società preferisce non vedere.
Nella società contemporanea, caratterizzata dal progresso tecnologico e dal miglioramento degli standard di vita, la morte è diventata un tabù culturale, confinata negli ambienti istituzionali. Questa trasformazione non è avvenuta improvvisamente, ma rappresenta il culmine di un processo che ha radicalmente modificato il nostro rapporto con la mortalità, iniziando dalla negazione dei suoi stessi precursori: l’invecchiamento, la malattia, la fragilità umana. Per comprendere come sia divenuto così difficile elaborare il lutto nella nostra epoca, dobbiamo partire dall’analisi di come la società moderna si relazioni con l’invecchiamento. Gli anziani sono spesso considerati fragili o dipendenti e un peso per la società. I professionisti della salute pubblica, e la società nel suo complesso, devono affrontare questi e altri atteggiamenti ageisti. L’invecchiamento, che dovrebbe rappresentare una fase naturale della vita ricca di saggezza e esperienza, viene invece percepito come un fallimento, una sconfitta da nascondere, rimandare, negare a ogni costo. Questo atteggiamento di rifiuto verso l’invecchiamento crea le premesse per l’impossibilità di accettare la morte. Se non riusciamo ad accogliere i segni del tempo che passa, come possiamo affrontare serenamente l’idea che la vita abbia una fine? La società del “forever young” non è solo una questione estetica, ma rappresenta una profonda difficoltà esistenziale che si riflette drammaticamente quando ci troviamo di fronte alla perdita. Le generazioni che ci hanno preceduto vivevano in un rapporto completamente diverso con la mortalità. Nel secolo scorso, la morte era ancora un evento familiare e comunitario. Le persone morivano in casa, circondate dalla famiglia allargata, e tutto il vicinato partecipava al dolore e ai rituali del lutto. I bambini crescevano vedendo i nonni invecchiare e poi morire, partecipando ai funerali, osservando gli adulti attraversare il dolore e gradualmente riemergere.
Fino agli anni ’50, la maggior parte delle persone moriva nelle proprie case. Tuttavia, negli anni recenti, il luogo della morte si è largamente spostato verso ospedali, hospice, case di cura a lungo termine o altre istituzioni sanitarie. Questa trasformazione ha avuto conseguenze profonde non solo su dove moriamo, ma su come viviamo la perdita. La famiglia allargata, che un tempo fungeva da contenitore naturale per il dolore, si è frammentata. I rituali tradizionali che scandivano il tempo del lutto e permettevano alla comunità di sostenere chi soffriva sono stati progressivamente abbandonati. Nelle società tradizionali, il lutto aveva tempi, spazi e modalità socialmente riconosciute. Il nero, il ritiro temporaneo dalla vita sociale, le visite di condoglianze, i riti religiosi – tutto concorreva a creare una rete di sostegno che permetteva l’elaborazione graduale della perdita. La comunità sapeva come comportarsi con chi aveva subito un lutto, quali parole dire e quali evitare, come offrire aiuto concreto e presenza emotiva.
La ricerca contemporanea evidenzia come la morte sia un esempio classico di medicalizzazione, ovvero un processo attraverso il quale questioni sociali e personali vengono comprese come problemi medici che richiedono gestione clinica. Questo processo di medicalizzazione, pur avendo portato innegabili benefici in termini di controllo del dolore e di dignità del morire, ha anche contribuito a rimuovere la morte dalla sfera dell’esperienza quotidiana, relegandola negli ospedali e nelle strutture sanitarie. La conseguenza più drammatica di questa trasformazione è che la maggior parte delle persone oggi arriva all’esperienza del lutto completamente impreparata. Non hanno mai visto morire nessuno, non hanno mai partecipato a un’elaborazione collettiva del dolore, non conoscono i tempi e i modi naturali del processo di guarigione. Quando la perdita li colpisce, si trovano soli di fronte a un’esperienza per la quale non hanno strumenti né culturali né emotivi. Paradossalmente, proprio mentre la tecnologia ci permette di essere sempre connessi, l’elaborazione del lutto diventa sempre più solitaria. La tecnologia gioca un ruolo significativo nella socializzazione e nello sviluppo della società. Poiché Facebook, e gli altri social, sono diventati siti comune per raggiungere gli altri in cerca di senso di sostegno e connessione, sono anche diventati un luoghi per esprimere dolore e lutto attraverso la creazione di Gruppi Commemorativi. Sebbene i social media offrano nuove possibilità di condivisione del dolore, spesso finiscono per sostituire piuttosto che integrare il sostegno reale. Simulando la presenza, queste tecnologie influenzano il lavoro cognitivo richiesto per l’accettazione e la reintegrazione, favorendo la dipendenza dall’illusione piuttosto che la resilienza nell’assenza. La possibilità di mantenere “vivo” digitalmente il rapporto con il defunto può diventare un ostacolo all’elaborazione naturale del lutto, creando un’illusione di continuità che impedisce l’accettazione della perdita.
Dal punto di vista psicodinamico, il rifiuto sociale della morte crea condizioni particolarmente sfavorevoli per l’elaborazione del lutto. Freud aveva già intuito l’importanza del “lavoro del lutto” come processo necessario per il distacco graduale dall’oggetto perduto e la possibilità di reinvestire l’energia psichica in nuove relazioni. Questo lavoro, però, richiede tempo, sostegno e riconoscimento sociale. Quando la società nega la legittimità del dolore, quando si aspetta che la persona “superi” rapidamente la perdita e “torni alla normalità”, si creano le condizioni per quello che viene definito disturbo del lutto prolungato, una condizione complessa che può emergere quando un individuo non riesce a transitare dal lutto acuto a una forma più integrata di elaborazione del cordoglio dopo la morte di una persona cara. Il lutto complicato non è solo una questione individuale, ma spesso il risultato di un contesto sociale che non sa accogliere e contenere il dolore.
La pressione sociale a “funzionare” nonostante la perdita può portare a meccanismi di difesa maladattivi: la negazione prolungata, l’evitamento delle emozioni dolorose, l’iperattivazione compensatoria. Questi meccanismi, pur offrendo un sollievo
temporaneo, impediscono l’elaborazione genuina della perdita e possono generare sintomi che persistono per anni.
Particolarmente preoccupante è l’impatto di questa cultura della negazione sui giovani. Uno studio ha rilevato che l’atteggiamento negativo verso la morte era diffuso durante la giovane età adulta con un costante declino con l’aumentare dell’età. I ragazzi di oggi crescono in un mondo dovela morte è stata rimossa dall’esperienza quotidiana, ma è onnipresente nei media come spettacolo o intrattenimento. Quando questi giovani si trovano ad affrontare la loro prima perdita significativa – un nonno, un genitore, un amico – spesso non hanno alcun modello di riferimento per comprendere cosa stia accadendo loro. Non hanno mai visto un adulto attraversare il lutto, non conoscono le fasi normali del processo, non sanno che è naturale sentirsi sopraffatti, arrabbiati, confusi. Spesso interpretano le loro reazioni come segni di debolezza o patologia, aggiungendo vergogna al dolore.

La trasformazione della struttura familiare ha ulteriormente complicato l’elaborazione del lutto. La famiglia nucleare, per quanto possa essere fonte di affetto e sostegno, spesso non ha le risorse per contenere un dolore così intenso. Quando tutti i membri della famiglia sono colpiti dalla stessa perdita, diventa difficile trovare qualcuno che possa fungere da “contenitore” stabile per le emozioni degli altri. La ricerca contemporanea conferma che è raro che si possa elaborare il lutto da soli perché per esprimere a pieno tutte le proprie emozioni si ha bisogno di qualcuno, di essere ascoltati e compresi, accompagnati con empatia da una persona o gruppo che fungano da “contenitore”
. Nelle società tradizionali, questo ruolo era assunto dalla comunità allargata – parenti, vicini, la comunità religiosa. Oggi, spesso, questo supporto semplicemente non esiste.
Un altro aspetto particolarmente problematico della nostra cultura è la trasformazione del dolore da esperienza umana universale a “problema” da risolvere rapidamente. Tutta la
cultura contemporanea è caratterizzata da un immenso sforzo per dissociare la vita dalla morte, perché concepisce la capacità di funzionare dell’organismo umano e la sua redditività in fatto di produzione come i soli valori a cui informare la vita. Questa mentalità produttivistica trasforma il lutto in un “tempo morto” che deve essere minimizzato. I congedi per lutto sono minimi, ci si aspetta che la persona torni rapidamente “efficiente”, ogni manifestazione prolungata di dolore viene vista con sospetto. In questo contesto, chi è in lutto spesso si sente in colpa per il proprio dolore, come se stesse “sprecando tempo” o “facendo un capriccio”.
Come professionisti della salute mentale, abbiamo la responsabilità di restituire dignità e legittimità al processo del lutto. Questo significa innanzitutto aiutare le persone a comprendere che il dolore per una perdita non è una patologia da curare, ma un processo naturale e necessario che richiede tempo e sostegno. La ricerca più recente conferma l’importanza di approcci che rispettino i tempi individuali del lutto. Il modello di processo integrato integra terapie, strumenti e modelli all’interno di diverse teorie e paradigmi scientifici per connettere discipline e professioni. Questo significa lavorare non solo sugli aspetti emotivi della perdita, ma anche su quelli fisici, cognitivi, sociali e spirituali. È fondamentale aiutare le persone a riconnettersi con la dimensione comunitaria del dolore. Questo può significare facilitare la creazione di gruppi di sostegno, incoraggiare la partecipazione a rituali significativi, aiutare a costruire reti di supporto che possano sostenere il processo di elaborazione nel tempo.
L’elaborazione del lutto nella società moderna è resa difficile non tanto dalla perdita in sé, quanto dal contesto culturale che la circonda. Il rifiuto dell’invecchiamento, la medicalizzazione della morte, la frammentazione delle comunità, la pressione alla produttività a ogni costo – tutti questi fattori concorrono a creare un ambiente ostile per chi sta attraversando il dolore della perdita.
Riconoscere questa dimensione sociale del problema è il primo passo per iniziare a costruire alternative. Occorre sensibilizzare la società sull’importanza di riconoscere e sostenere chi è in lutto. Come esseri umani, abbiamo la responsabilità di ricostruire quei legami comunitari che permettono di attraversare insieme le sfide più difficili dell’esistenza.
La morte e il lutto non sono nemici da sconfiggere, ma parte integrante dell’esperienza umana.
Solo accettando questa verità potremo iniziare a costruire una società che sappia accompagnare con saggezza e compassione chi affronta la perdita, restituendo dignità a un processo che, per quanto doloroso, rappresenta l’ultima, fondamentale forma di amore verso chi non c’è più.
