“Una buona metà di ogni trattamento che sonda in profondità consiste nel fatto che il medico esamina se stesso… è la sua stessa ferita che dà la misura del suo potere di guarire. Questo, e nient’altro, è il significato del mito greco del medico ferito.” Jung
Durante una sessione di gruppo con pazienti con dipendenze comportamentali, ho assistito a un momento che ha ridefinito la mia comprensione dell’equilibrio emotivo in psicoterapia. Un partecipante, dopo mesi di resistenze difensive, si è finalmente permesso di esplorare quello che in termini psicodinamici definiremmo il suo “vuoto oggettuale” – quella dolorosa esperienza di carenza relazionale primaria che aveva tentato di colmare attraverso comportamenti compulsivi. Mentre descriveva la sensazione di vuoto che aveva accompagnato la sua infanzia, le sue parole hanno raggiunto una profondità tale che io, come terapeuta, mi sono trovata con le lacrime agli occhi. Non erano lacrime di tristezza per lui, ma piuttosto una risonanza emotiva profonda con il coraggio che stava dimostrando nell’affrontare quel nucleo così doloroso della sua esperienza. Un altro partecipante del gruppo, osservando la scena, ha posto una domanda che risuona spesso nella mente di molti colleghi: “Ma i terapeuti possono mostrare quello che sentono o è proibito?” Questa domanda apparentemente semplice tocca uno dei nodi più complessi della pratica clinica contemporanea e merita una riflessione approfondita, supportata dalle più recenti evidenze di ricerca.
La formazione psicoterapeutica tradizionale ci ha insegnato l’importanza della neutralità emotiva come fondamento del setting terapeutico. Questo principio, radicato nella tradizione psicoanalitica classica, trova le sue origini nella necessità di creare uno spazio sicuro e non contaminato dalle nostre proiezioni personali, dove il paziente possa esplorare liberamente il proprio mondo interno. Tuttavia, la ricerca moderna in ambito psicodinamico sta rivelando una realtà più complessa e sfumata. Uno studio pionieristico di Blume-Marcovici e colleghi, pubblicato sull’American Journal of Psychotherapy, ha esaminato il fenomeno del “pianto del terapeuta” (Therapist Crying in Therapy – TCIT) attraverso l’analisi di 411 resoconti di psicologi. I risultati sono stati illuminanti: nel 73% dei casi analizzati, il cliente stava piangendo durante l’episodio di pianto del terapeuta, e nell’82% dei casi i terapeuti ritenevano che le loro lacrime avessero portato il cliente a sentire che il terapeuta si prendeva genuinamente cura di lui. Ancora più significativo è il dato che emerge da questa ricerca: i terapeuti più anziani e più esperti, così come quelli con un orientamento psicodinamico, tendevano a piangere di più durante le sedute. Questo suggerisce che l’esperienza clinica e la formazione psicodinamica possano effettivamente predisporre a una maggiore autenticità emotiva nel setting terapeutico.
Per comprendere appieno il significato clinico di questi momenti emotivi, dobbiamo rivolgerci alle moderne teorizzazioni dell’attaccamento e delle relazioni oggettuali. La ricerca contemporanea ha dimostrato come secondo Bowlby, il terapeuta serva come figura di attaccamento nel contesto della psicoterapia a lungo termine, creando quello che Winnicott definiva uno “spazio transizionale” per l’esplorazione emotiva. Nel caso del mio paziente che esplorava il suo vuoto oggettuale, la mia risposta emotiva può essere compresa attraverso il prisma delle moderne teorizzazioni sulle relazioni oggettuali. Come sottolinea la ricerca, il paziente non aderisce all’oggetto cattivo per resistenza, ma per un attaccamento guidato dall’ansia che il terapeuta comprenderà e interpreterà. La mia commozione rappresentava una forma di riconoscimento e validazione della sua esperienza, un momento in cui il “falso sé” difensivo poteva finalmente cedere il passo al “vero sé” autentico.
La ricerca moderna ha sfatato molti miti riguardo alla neutralità emotiva assoluta. Uno studio pubblicato su The Professional Counselor ha esplorato le esperienze personali dei counselor che piangono durante le sedute, rivelando che le lacrime emotive sembrano essere associate alla riduzione della tensione, suggerendo che il pianto avviene quando una barriera psicologica scompare, segnalando recupero e adattamento piuttosto che continuazione del distress. Particolarmente rilevante è la distinzione emersa dalla ricerca tra due tipi di pianto terapeutico. Il primo è caratterizzato dall’essere sopraffatti da emozioni negative intense, mentre il secondo – più comune tra i terapeuti esperti – segnala un momento di connessione emotiva potenzialmente positiva, anche se nel mezzo di affetti negativi dolorosi. La vera sfida clinica consiste nell’integrare questi insight di ricerca nella pratica quotidiana. Nel mio lavoro con pazienti affetti da dipendenze comportamentali, ho osservato come abbiano spesso sviluppato sofisticati meccanismi difensivi proprio per evitare il contatto con il loro vuoto oggettuale. Come evidenziato dalla teoria delle relazioni oggettuali, il bambino crea un’illusione di vivere in un bozzolo caldo di amore, e qualsiasi informazione che interferisce con questa illusione viene forzatamente espulsa dalla coscienza. Quando un paziente finalmente accede eroicamente a questo nucleo doloroso, la nostra risposta emotiva autentica può fungere da “regolatore nascosto” – per usare la terminologia dell’attaccamento – che facilita l’integrazione di esperienze precedentemente dissociate. La ricerca conferma che quando i pazienti sono attaccati in modo sicuro ai loro terapeuti, mostrano un’alleanza di lavoro più forte e livelli più elevati di auto-rivelazione.
Questi insight hanno profonde implicazioni per la formazione dei terapeuti. Piuttosto che mirare a una neutralità emotiva assoluta, dovremmo forse orientarci verso quella che potremmo definire “autenticità regolata” – la capacità di essere genuinamente presenti emotivamente mantenendo al contempo la capacità di contenimento e direzione terapeutica. La ricerca indica che circa la metà dei terapeuti porta questo argomento ai propri supervisori, e possibilmente ancora di più sono preoccupati ma non ne discutono mai, poiché sono tra gli argomenti “più evitati” nella supervisione. Questo suggerisce la necessità di creare spazi formativi più aperti per esplorare queste dinamiche complesse.
È fondamentale sottolineare che la disclosure emotiva del terapeuta non è sempre appropriata o benefica. La ricerca evidenzia preoccupazioni legittime: il 69% dei terapeuti esprimeva preoccupazione che il pianto del terapeuta potesse causare al paziente la preoccupazione che il terapeuta non sarebbe stato in grado di gestire le sue emozioni. Nel caso specifico del lavoro con dipendenze comportamentali, dobbiamo essere particolarmente attenti ai pattern di inversione di ruolo e alle dinamiche di accudimento compulsivo che questi pazienti possono mettere in atto.
La chiave sta nel distinguere tra una risposta emotiva che emerge dalla risonanza terapeutica autentica e una che potrebbe derivare dai nostri bisogni non risolti.
L’episodio del gruppo che ha ispirato questa riflessione mi ha insegnato che la neutralità emotiva e la partecipazione autentica non sono necessariamente antitetiche. Come suggerisce la ricerca moderna, un terapeuta non ha bisogno di piangere per essere d’aiuto al proprio paziente, e sulla base della nostra ricerca, non sembra nemmeno che un terapeuta debba nascondere le proprie lacrime per essere d’aiuto. Quello che emerge è un modello più sofisticato di presenza terapeutica, dove la capacità di essere toccati dall’esperienza del paziente diventa essa stessa uno strumento terapeutico. Nel contesto delle dipendenze comportamentali, dove i pazienti hanno spesso imparato a disconnettersi dalle proprie emozioni autentiche, la nostra capacità di rimanere emotivamente presenti può offrire un modello alternativo di regolazione emotiva.
La domanda posta dal partecipante del gruppo – “Ma i terapeuti possono mostrare quello che sentono?” – merita una risposta più articolata di un semplice sì o no. La ricerca moderna ci suggerisce che la questione non è se possiamo o dobbiamo mostrare le nostre emozioni, ma piuttosto come possiamo utilizzare la nostra umanità autentica al servizio del processo terapeutico. Nel lavoro con il vuoto oggettuale, quella particolare forma di sofferenza che caratterizza molte dipendenze comportamentali, la nostra capacità di essere genuinamente toccati dal coraggio del paziente può rappresentare la prima esperienza di riconoscimento emotivo autentico che abbiano mai sperimentato. Come evidenziato dalla teoria dell’attaccamento, quando avviene il cambiamento dopo una terapia a lungo termine, questo cambiamento emerge attraverso rappresentazioni cognitive, cambiamenti a livello fisiologico, o entrambi. La neutralità emotiva rimane un principio fondamentale, ma deve essere compresa come uno strumento flessibile piuttosto che come un dogma rigido.
La vera maestria terapeutica risiede nella capacità di navigare fluidamente tra contenimento professionale e presenza emotiva autentica, sempre al servizio del benessere e della crescita del paziente.
Quando quel giorno ho permesso alle mie lacrime di essere visibili, non stavo abbandonando la mia professionalità – stavo piuttosto incarnando quella forma di presenza terapeutica che la ricerca moderna ci indica come potenzialmente trasformativa. In quel momento, la neutralità si è trasformata in presenza, e la presenza è diventata il veicolo per una connessione terapeutica autentica che ha permesso al paziente di sentirsi veramente visto e riconosciuto nella sua sofferenza.
Questo articolo riflette considerazioni personali maturate attraverso anni di pratica clinica e ricerca continua. Le evidenze presentate derivano da studi peer-reviewed e devono essere sempre contestualizzate rispetto alle specificità di ogni situazione clinica e orientamento terapeutico.
