“La nevrosi è sempre un sostituto per una legittima sofferenza.” Jung.
Questa profonda osservazione di Jung suggerisce che ciò che il paziente porta inizialmente in terapia (il sintomo, la lamentela, la richiesta esplicita) è spesso un “sostituto” – una manifestazione indiretta di un conflitto più profondo o di un dolore esistenziale che non può essere ancora affrontato direttamente. L’analisi della domanda, in questa prospettiva junghiana, diventa quindi il processo di discernere quale sia la “legittima sofferenza” che si nasconde dietro la richiesta manifesta di aiuto. Il terapeuta è chiamato a guardare oltre il sintomo per comprendere quale sofferenza autentica il paziente stia inconsciamente chiedendo di riconoscere e attraversare, anziché limitarsi a eliminare il disagio superficiale. Questa comprensione è fondamentale nell’approccio junghiano, dove la terapia non mira alla semplice rimozione dei sintomi, ma a un processo di trasformazione e individuazione che passa necessariamente attraverso il confronto con le parti ombra e con i conflitti autentici della psiche.
La stanza è silenziosa. Una nuova persona è seduta di fronte a me. Abbiamo completato le presentazioni iniziali, discusso brevemente le formalità del setting. Ora ci troviamo in quel momento cruciale, quello spazio liminale dove la terapia propriamente detta ha inizio. È qui che, quasi invariabilmente, pongo la mia domanda: “Come posso esserle utile?”
Questa domanda, apparentemente semplice, rappresenta molto più di una cortese introduzione alla seduta. È l’avvio di quello che nella tradizione psicodinamica chiamiamo “analisi della domanda” – un processo di esplorazione e decodifica di ciò che il paziente sta realmente chiedendo al di là delle parole che utilizza.
L’ascolto oltre le parole
Quando pongo questa domanda, mi preparo ad ascoltare su molteplici livelli. C’è naturalmente il contenuto manifesto – il motivo dichiarato per cui la persona ha cercato aiuto. “Soffro di attacchi d’ansia”, “Ho difficoltà nelle relazioni”, “Non riesco a superare una separazione”. Ma come psicoterapeuta a orientamento psicodinamico, so che questi contenuti manifesti sono solo la punta dell’iceberg.
Sotto la superficie della richiesta esplicita si nasconde una costellazione di significati latenti, desideri inconsci, fantasie transferali e aspettative spesso ambivalenti sul processo terapeutico. L’analisi della domanda è precisamente il lavoro di iniziare a mappare questi territori sommersi.
Le risposte alla domanda e i loro significati
La risposta che ricevo a “Come posso esserle utile?” rivela immediatamente molto sul mondo interno del paziente:
La risposta concreta e sintomatologica: “Vorrei eliminare i miei attacchi di panico” rivela spesso un approccio medicalizzato alla sofferenza psichica, dove il terapeuta è inconsciamente posizionato come “medico” che deve “curare” un “sintomo”. Quest
o puòindicare una visione scissa della propria esperienza emotiva, dove parti di sé sono considerate “malate” e da eliminare.
La risposta generica e vaga: “Non lo so esattamente, non sto bene” suggerisce spesso una difficoltà a mentalizzare la propria esperienza emotiva, a dare parole e forma al proprio disagio. È un’importante indicazione della capacità di introspezione e simbolizzazione del paziente.
La risposta narrativa estesa: Il paziente che risponde con un lungo racconto biografico, apparentemente senza pause o spazi di riflessione, mi comunica implicitamente il suo timore che io non possa realmente comprendere a meno che non conosca “tutta la storia”. Questo può rivelare angosce primitive sull’essere visto e riconosciuto.
La risposta che delega: “Lei è l’esperto, mi dica cosa devo fare” tradisce una posizione di passività e un’aspettativa magica sul processo terapeutico, dove il cambiamento dovrebbe avvenire senza il doloroso lavoro di confrontarsi con parti di sé scomode o conflittuali.
Il transfert si manifesta dal primo scambio
Il modo in cui il paziente risponde a “Come posso esserle utile?” costituisce già la prima manifestazione del transfert. Chi mi posiziona come figura autoritaria che deve fornire risposte definitive? Chi come potenziale alleato in un percorso di auto-comprensione? Chi come possibile salvatore da una condizione intollerabile?
Ricordo Marta, una paziente che alla mia domanda rispose con un elenco dettagliato e meticoloso di sintomi, date di insorgenza, circostanze scatenanti – quasi fosse in visita da un medico internista. Nel corso del lavoro terapeutico emerse come questa modalità riflettesse la sua relazione con una madre emotivamente assente ma estremamente attenta alla salute fisica. Solo presentandosi come “corpo sofferente”, Marta aveva potuto ricevere attenzioni materne.
O Paolo, che rispose con un brusco “Sperai che me lo dicesse lei” – rivelando, già in quella prima interazione, la dinamica di sfida e svalutazione che aveva caratterizzato la sua relazione con una figura paterna vissuta come inadeguata e deludente.
La domanda dietro la domanda
L’analisi della domanda significa cercare di comprendere cosa il paziente stia realmente chiedendo quando chiede aiuto. Dietro “Voglio superare l’ansia” potrebbe nascondersi:
“Voglio essere finalmente accettato da qualcuno senza dovermi vergognare” “Ho bisogno che qualcuno tolleri le mie emozioni intense che nessuno ha mai potuto contenere” “Desidero permesso di avere bisogni e dipendere senza sentirmi in colpa” “Cerco qualcuno che mi aiuti a dare senso a esperienze che sembrano frammentate e caotiche”
Questi significati più profondi emergono raramente nelle parole esplicite della prima seduta. Si manifestano nei silenzi, nelle esitazioni, nei lapsus, nel linguaggio corporeo, nei temi ricorrenti. E, soprattutto, nella relazione transferale che inizia a svilupparsi.
Quando la richiesta impossibile si rivela
Una delle sfide più delicate nell’analisi della domanda è riconoscere quando il paziente formula, inconsciamente, una richiesta impossibile. “Guarisca il mio dolore senza che io debba sentirlo”, “Mi dia ciò che i miei genitori non mi hanno mai dato”, “Mi liberi dalla mia storia senza che io debba affrontarla”.
Questi desideri sono comprensibili, profondamente umani, e al contempo irrealizzabili. Una parte essenziale del lavoro terapeutico consiste nel trasformare gradualmente queste richieste impossibili in un progetto terapeutico realizzabile – non eliminando il dolore, ma aiutando il paziente a sviluppare la capacità di contenerlo e dargli significato.
Giovanni, un paziente con un grave disturbo narcisistico, rispose alla mia domanda iniziale con “Voglio tornare come prima, quando ero felice”, riferendosi a un periodo precedente alla rottura di una relazione. Col tempo, divenne chiaro che “come prima” significava per lui uno stato idealizzato in cui poteva mantenere l’illusione di onnipotenza, evitando il confronto con la propria vulnerabilità e dipendenza. Il lavoro terapeutico si orientò non a realizzare questa impossibile richiesta, ma a rendere tollerabile la dolorosa consapevolezza dei propri limiti umani.
“Come posso esserle utile?” come atto trasformativo
Porre questa domanda iniziale non è solo un modo per raccogliere informazioni. È già, in sé, un atto terapeutico potenzialmente trasformativo. Per molti pazienti, infatti, rappresenta un’esperienza nuova e significativa:
- Qualcuno che chiede genuinamente cosa desiderano, senza presumere di saperlo già
- Un invito a diventare soggetti attivi nel proprio percorso di cura, non oggetti passivi
- La comunicazione implicita che la loro voce e i loro desideri hanno valore
- Un messaggio che la terapia sarà un processo co-costruito, non qualcosa “fatto a loro”
Per persone cresciute in contesti dove i loro bisogni erano ignorati, svalutati o usati contro di loro, questo semplice atto di chiedere può rappresentare una prima, sottile crepa nel copione relazionale patogeno che si aspettano di ripetere.
L’evoluzione della domanda nel processo terapeutico
L’analisi della domanda non si esaurisce nella prima seduta, ma continua e si trasforma lungo tutto il percorso terapeutico. La domanda iniziale viene continuamente riformulata, approfondita, talvolta completamente ridefinita.
Elena iniziò la terapia chiedendo aiuto per “diventare più assertiva sul lavoro”. Col tempo, questa richiesta si trasformò nella dolorosa esplorazione della rabbia repressa verso una madre invadente e controllante, rabbia che non poteva riconoscere consciamente senza minacciare il legame con una figura centrale della sua vita psichica.
Marco, che inizialmente cercava sollievo da sintomi ossessivi, gradualmente scoprì che la sua vera domanda riguardava come integrare parti di sé – impulsi, desideri, emozioni – che aveva rigidamente scisso e proiettato, mantenendo un’immagine ideale ma impoverita di sé stesso.
In questo senso, l’intero processo terapeutico può essere visto come un progressivo affinamento e approfondimento della domanda iniziale. Aiutare il paziente a formulare una domanda più autentica, più vicina ai suoi reali bisogni e desideri, è già parte essenziale della cura.
L’asimmetria necessaria
“Come posso esserle utile?” riconosce implicitamente un’asimmetria nella relazione terapeutica. Io sono lì in una funzione professionale, al servizio del percorso del paziente. Questa asimmetria è necessaria e strutturante.
Allo stesso tempo, la domanda evita di posizionarmi come detentore del sapere sul paziente. Non chiedo “Qual è il suo problema?” – formulazione che presupporrebbe che il paziente sia “problematico” e che io sappia già che ciò di cui ha bisogno è la risoluzione di un “problema”.
Questa sottile distinzione è fondamentale nell’approccio psicodinamico, dove il terapeuta non si pone come esperto dei contenuti della vita psichica del paziente, ma come facilitatore del processo attraverso cui questi contenuti possono emergere, essere riconosciuti e integrati dal paziente stesso.
Conclusione: Una domanda che apre lo spazio terapeutico
“Come posso esserle utile?” è una domanda che crea uno spazio. Uno spazio in cui il paziente è invitato a esprimere un desiderio, a formulare una richiesta, a immaginare una possibilità di cambiamento. Nel modo stesso in cui risponde, rivela già molto di sé – delle sue risorse e delle sue difese, dei suoi modelli relazionali e delle sue aspettative transferali.
Per me, porre questa domanda rappresenta ogni volta un piccolo atto di umiltà professionale. Non presumo di sapere in anticipo cosa sia meglio per la persona che ho di fronte. Riconosco che solo dal loro desiderio può nascere un autentico percorso di trasformazione.
E quando la persona inizia a rispondere, io inizio ad ascoltare – non solo con l’intelletto, ma con quella particolare forma di attenzione fluttuante che cerca di cogliere i significati nascosti tra le righe, le emozioni che vibrano sotto le parole, i pattern relazionali che iniziano a manifestarsi nell’interazione con me.
È in questo spazio condiviso, tra la mia domanda e la loro risposta, che la terapia inizia a prendere vita.
